Forniamo un primo commento della nostra Confederazione alle principali norme giuslavoristiche del decreto legge 14 agosto 2020, n. 104.
Contratti a termine
La prima disposizione da commentare è l’art. 8, comma 1, lett. a) del d.l. 104/2020 che apporta una serie di modifiche all’art. 93, comma 1, del d.l. n. 34/2020 convertito in l. n. 77/2020.
Nel confermare la possibilità di rinnovare o prorogare contratti a termine “senza causale” (in deroga all’articolo 21 del d. lgs n. 81/2015), ciò viene ora previsto per un periodo massimo di 12 mesi, ma sempre nel rispetto del principio della durata massima complessiva dei 24 mesi, e “per una sola volta”.
Viene eliminata l’espressione contratti “in essere alla data del 23 febbraio 2020” che costituiva un limite, non condivisibile, alla facoltà di proroga dei contratti a termine disciplinata, in precedenza, nello stesso comma.
Viene altresì opportunamente eliminata l’ambigua espressione “per far fronte al riavvio delle attività” che, a nostro avviso, aveva un valore meramente descrittivo ma che aveva ingenerato una serie di dubbi interpretativi.
Il rinnovo o la proroga “acausale” è possibile fino al 31 dicembre 2020 il che dovrebbe significare (a mente del “chiarimento” intervenuto con una faq ministeriale avente ad oggetto l’analoga espressione utilizzata nella precedente formulazione dell’art. 93), che il contratto a termine, rinnovato o prorogato, dovrebbe “spirare” entro il 31 dicembre. Confindustria ha predisposto un emendamento mirato a far sì che la sottoscrizione della proroga o del rinnovo possa avvenire entro il 31 dicembre 2020, anche perché, altrimenti, non si comprende che senso pratico avrebbe la previsione di una durata massima di 12 mesi, che sarebbe sostanzialmente irrealizzabile, dato che la norma è entrata in vigore il 15 agosto del 2020.
Il rinnovo o la proroga, come si diceva, si può effettuare “per una sola volta”.
Dunque in base ai principi generali la nuova norma dovrebbe applicarsi solo per il futuro e, pertanto, si dovrebbe ritenere che, dall’entrata in vigore del decreto legge di agosto, n.104/2020, sia possibile prorogare o rinnovare i contratti a termine senza l’apposizione di causali, ma per una sola volta, con sottoscrizione del relativo patto entro il 31 dicembre (ma, come si diceva, su quest’ultimo punto occorrerà necessariamente attendere indicazioni ministeriali, ovvero l’eventuale accoglimento di un emendamento come quello proposto da Confindustria).
Dato che la legge dispone che proroga e rinnovo possano essere effettuati una sola volta, se ne deduce che questo regime “acausale” non dovrebbe tener conto dei rapporti pregressi.
Ragionando altrimenti, in tema di rinnovi, la causale andrebbe applicata al primo rinnovo (e, dunque, se si tenesse conto dei rapporti pregressi la nuova norma sarebbe inattuabile).
In tema di proroghe poi, è noto che nei primi 12 mesi “acausali” si possono effettuare fino a quattro proroghe. Pertanto l’espressione “per una sola volta”, riferito alle proroghe, lascia intendere che il contenuto del nuovo art. 93 ha una sua valenza autonoma e peculiare, che prescinde, seppur in parte, dalla “disciplina generale” sui contratti a termine.
Inoltre, posto che nell’art. 93 “riformato” dal d.l. 104/2020, si parla espressamente di deroga all’art. 21, si dovrebbe concludere che questa proroga non si conteggia tra le quattro previste nel citato comma 1 dell’art. 21.
Sempre in tema di emendamenti, Confindustria ne ha anche predisposto uno che – preso atto dell’opportuna volontà del legislatore di abrogare espressamente il comma 1 bis dell’art. 93 (quello che prevede le proroghe “automatiche”) – prevede anche la cessazione degli effetti già prodotti dall’entrata in vigore di tale norma, fissando un termine all’efficacia di tali effetti al momento della entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 104/2020.
La sola abrogazione del comma 1 bis, pur ampiamente condivisibile, opera per il futuro, e dunque lascerebbe inalterata l’attuazione delle proroghe “automatiche” dei contratti a termine che fossero stati oggetto di sospensione (nei termini previsti dal comma 1 bis) e che fossero in essere fino al giorno 14 agosto 2020 ossia il giorno precedente l’entrata in vigore della norma abrogatrice.
Licenziamenti
La norma che disciplina il “blocco” dei licenziamenti (art. 14) è stata interamente riformulata pur mantenendo, in buona sostanza, molti dei contenuti precedenti ma la novità, oltre al differimento del termine ultimo del “blocco” al 31 dicembre 2020 (che comunque, come si dirà, non dovrebbe essere inteso come un termine finale valido per tutte le imprese) sta nella previsione di una serie di eccezioni al “blocco” stesso.
E così il principio generale è che fino al 31 dicembre 2020 i datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all’art. 1 del d.l. 104/2020 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali previsti dall’art. 3 dello stesso decreto legge (vedi nota 1[1]), alle condizioni previste dalla legge, continuano a non poter dare avvio a procedure di licenziamento collettivo e restano sospese, come in precedenza, le procedure pendenti, avviate successivamente al 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi di cambio appalto, come in precedenza.
Alle stesse condizioni è preclusa per i datori, a prescindere dal numero dei dipendenti, la possibilità di effettuare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, nonché la possibilità di avviare le procedure ex art. 7 della legge n. 604 del 1966.
Ora il primo problema interpretativo che si pone, molto delicato e complesso, è quello di capire se la cessazione del divieto di licenziare sia o meno legata, per tutte le imprese, alla data del 31 dicembre 2020.
La tecnica legislativa utilizzata questa volta, che – a differenza delle precedenti norme in tema – non individua nel corpo della norma medesima una espressa data di scadenza del divieto, fa ritenere che, in questo caso, la cessazione dl divieto diventi “mobile” ossia differente da impresa a impresa, tenendo conto delle condizioni poste dagli artt. 1 e 3 del d.l. n. 104/2020.
In altre parole, e a titolo d’esempio, se una impresa finisse di utilizzare tutto il periodo di cassa Covid ulteriormente concesso con l’art. 1 del d.l. n.104 a fine novembre, potrebbe successivamente effettuare dei licenziamenti. Ciò anche tenendo conto che l’art. 14 impone il divieto di licenziamento ai datori di lavoro che “non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale……”
Naturalmente, data la complessità delle norme che sul punto regolano la materia nel d.l. 104/2020, è opportuno un approfondimento in proposito, anche se il tenore letterale delle disposizioni, non sembra lasciare margini a fondate interpretazioni di diverso contenuto.
Veniamo ora alle eccezioni “espressamente previste dalla decreto legge al “blocco” dei licenziamenti.
Oltre alla già ricordata ipotesi del “cambio appalto”, nei termini già previsti dalla legge (ossia quando operano “clausole sociali” che assicurano la continuità “sostanziale” dl rapporto), le eccezioni previste sono:
- nel caso di cessazione definitiva dell’attività di impresa, conseguente alla messa in liquidazione senza continuazione, neppure parziale, dell’attività: l’eccezione viene meno se, nel corso della liquidazione, si possa configurare una cessione di un complesso di beni o di attività tale da concretare l’ipotesi di un trasferimento d’impresa o di ramo di essa, ai sensi dell’art. 2112 Cod. Civ.;
- nel caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo d’impresa, è possibile procedere ai licenziamenti solo nei settori non interessati dall’esercizio provvisorio.
Una ipotesi di “eccezione” al blocco dei licenziamenti del tutto nuova e che, unitamente alle precedenti, va incontro alle pressanti richieste di Confindustria affinchè il blocco venisse superato o, comunque, limitato, consiste nell’ipotesi della sottoscrizione di un accordo collettivo aziendale che preveda incentivi alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscano al predetto accordo. Viene espressamente previsto che a questi lavoratori viene riconosciuta la prestazione della Naspi.
L’accordo aziendale va stipulato con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
Confindustria ha già predisposto un emendamento che abiliti alla sottoscrizione di questi accordi anche le rsa e le rsu, seguendo una linea di politica sindacale, in ordine agli accordi di secondo livello, concordata con Cgil, Cisl, Uil da almeno un decennio e fatta propria anche dalla legislazione nazionale.
Ad un primo esame della disposizione la sottoscrizione di questo accordo non sembra debba avvenire a seguito dell’avvio di una procedura di licenziamento collettivo, peraltro ancora espressamente preclusa. Dunque si potrebbe concludere questo accordo aziendale in via del tutto autonoma e a prescindere dalla procedura della 223/1991.
In sostanza i datori di lavoro potrebbero concordare accordi aziendali “quadro” che prevedano condizioni di favore per la risoluzione del rapporto cui seguirebbe la conciliazione individuale con il singolo lavoratore interessato, conciliazione nella quale verrebbe previsto specificamente il riconoscimento dell’incentivo all’esodo.
Dovendo ricordare che, da un punto di vista teorico, un conto è concordare la risoluzione consensuale del rapporto incentivata e un conto è sottoscrivere una conciliazione che definisca tutte le eventuali “pendenze” derivanti dal rapporto, riteniamo particolarmente opportuno ricordare che la (eventuale) conciliazione che definisca anche la risoluzione del rapporto contenga una espressa rinuncia ad ogni diritto ed azione che riguardi il pregresso rapporto (naturalmente con una precisa individuazione dei diritti oggetto della conciliazione) nonché una rinuncia ad ogni diritto ed azione che riguardi la risoluzione del rapporto, compresa, per maggiore sicurezza, l’eventuale violazione della procedura dettata della legge 223 del 1991.
L’art. 14 si conclude riproponendo la norma che consente ai datori di lavoro che abbiano proceduto al recesso dal contratto per g.m.o., di revocare il recesso e porre in Cassa Covid il lavoratore con ripristino del rapporto senza soluzione di continuità, né oneri e sanzioni per il datore.
[1] L’art 3 del dl 104 prevede, a determinate condizioni, che ai datori di lavoro, ad esclusione del settore agricolo, “è riconosciuto” l’esonero dei contributi previdenziali a loro carico per un periodo massimo di quattro mesi entro il 31 dicembre 2020. Innanzitutto va detto che si tratta di una condizione “alternativa” alla fruizione delle integrazioni salariali (“ovvero”). Inoltre ove non ricorrano i presupposti previsti dalla legge (non richiesta dei trattamenti dell’art. 1 e fruizione a maggio e giugno 2020 dei trattamenti “Covid”) l’esonero non è applicabile.
Senonchè se il datore non ricorre alle integrazioni e ha i “requisiti” previsti, sembra, in base all’ambigua formulazione della legge, che sia “obbligato” a fruire dell’esonero. Naturalmente sul punto occorrerà attendere i chiarimenti dll’INPS.
In ogni caso, oltre alla complessità del meccanismo di computo di questo esonero, va sottolineato che, per espressa previsione di legge, la sua efficacia è subordinata all’autorizzazione della Commissione europea.
Orbene, condizionare la facoltà di licenziamento non solo alla integrale fruizione degli ammortizzatori Covid (che è già una scelta che ha dei limiti di tenuta costituzionale) ma anche, seppur in via alternativa, alla fruizione di questo esonero, risulta una scelta non condivisibile, posto che le due fattispecie non sono minimamente equiparabili, stante la circostanza che la fruizione di questo esonero contributivo è incerta, perché sottoposta al vaglio della Commissione Europea.
Confindustria ha pertanto elaborato un emendamento volto a sopprimere quest’ultima disposizione, ambigua e dai contenuti incerti.