Riportiamo la nota di Confindustria sulla responsabilità delle imprese in merito alla tutela contro il rischio di contagio da COVID-19.
Premessa
E’ stato convertito in legge 5 giugno 2020, n. 40 il Decreto-legge 8 aprile 2020 n.23, contenente misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali.
Nella legge, all’articolo 29bis, è presente la norma che definisce gli obblighi (e le conseguenti responsabilità) dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19.
Articolo 29-bis. (Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19)
- Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
L’art. 42 della legge n. 27/2020
Come si ricorderà, il decreto-legge n. 18/2020 (convertito in legge 24 aprile 2020, n. 27), all’articolo 42[1] aveva introdotto la espressa qualificazione del contagio da COVID19 come infortunio avvenuto in occasione di lavoro, con conseguente erogazione delle prestazioni Inail.
La norma aveva immediatamente scatenato una serie di polemiche, incentrate sulla incongruenza tra la natura di rischio generico del COVID19 e la qualificazione come infortunio sul lavoro (il rischio generico non rientra nella tutela assicurativa Inail) e sulle potenziali conseguenze del riconoscimento dell’infortunio da parte dell’Inail ai fini della responsabilità penale e civile.
Sul primo versante, la Corte costituzionale si è già pronunciata (Corte cost., sentt. n. 226/1987 e 462/1989), escludendo – all’epoca, con riferimento alla malaria – che il rischio non professionale possa rientrare nella tutela Inail.
Inoltre, per configurare l’occasione di lavoro e la causa violenta che legittimano il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro, la giurisprudenza, ha da tempo evidenziato che “la nozione attuale di causa violenta comprende qualsiasi fattore presente nell’ambiente di lavoro in maniera esclusiva o in misura significativamente diversa che nell’ambiente esterno, il quale, agendo in maniera concentrata o lenta, provochi (nel primo caso) un infortunio sul lavoro, o (nel secondo) una malattia professionale” (26 maggio 2006, n. 12559; 30 agosto 2010, n. 18852; 10 ottobre 2012 n. 17286; 25 marzo 2019 n. 8301).
È evidente che, al di fuori del settore ospedaliero o sociosanitario, il fattore COVID19 è presente più nell’ambiente esterno che nel luogo di lavoro, escludendo, così, anche l’occasione di lavoro.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, attinente ai profili di responsabilità, Confindustria ha sollecitato immediatamente sia una precisazione da parte dell’Inail sia l’emanazione di una norma che riferisse puntualmente la eventuale responsabilità alla mancata osservanza del Protocollo richiamato dal DPCM 17 maggio 2020, in luogo del consueto rinvio alla generica norma contenuta nell’art. 2087 cod. civ.[2]
La proposta di Confindustria
La proposta di Confindustria faceva riferimento alla qualificazione del protocollo come misura costituente il massimo standard di sicurezza adottabile per la tutela della salute e sicurezza e alla esclusione della responsabilità derivante da qualsiasi forma di contagio, qualificando la diffusione dell’infezione da COVID19 come ipotesi di forza maggiore, tale da attivare la norma contenuta nell’art. 5, comma 4, della Direttiva 89/391/CE del 12 giugno 1989[3].
Il testo elaborato in sede parlamentare, pur meno preciso di quello proposto da Confindustria, ha fatto comunque espresso riferimento all’articolo 2087 cod. civ., assegnando al Protocollo la precisa funzione di prendere il posto dei contenuti indeterminati della norma civilistica, in linea con la portata che Confindustria intendeva assegnare al Protocollo.
Le imprese non hanno evidentemente responsabilità nella presenza del virus, dunque non occorre uno scudo penale quanto, piuttosto, la indicazione puntuale di quali debbano essere gli obblighi dell’azienda nella attuale situazione di emergenza, così assicurando il rispetto del principio di legalità e certezza del diritto, in adesione alla giurisprudenza di legittimità:
“In tema di responsabilità per reato colposo di evento risulta indispensabile non solo individuare il soggetto al quale viene contestato di aver cagionato l’evento tipico; operazione che conduce a ricercare, sulla scorta del contesto normativo pertinente o della situazione di fatto, chi fosse nel caso concreto il gestore del rischio che si è concretizzato nell’evento. Ma è altresì necessario individuare anche la condotta doverosa che doveva essere concretamente posta in campo. Espressi tali concetti nei termini che la più recente giurisprudenza di legittimità mostra di adottare, può dirsi che oltre a cogliere la norma di dovere, donde deriva lo status di gestore del rischio, il giudice deve anche individuare la regola cautelare, di natura necessariamente modale, che specificando il concreto da farsi si integra con la prima e dà contenuto concreto, specifico ed attuale all’obbligo di sicurezza (cfr. Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015 – dep. 24/03/2016, P.G. in proc. e altri in proc. Barberi e altri, Rv. 267813, per la quale, in tema di reati colposi, la regola cautelare alla stregua della quale deve essere valutato il comportamento del garante, non può rinvenirsi in norme che attribuiscono compiti senza individuare le modalità di assolvimento degli stessi, dovendosi, invece, aver riguardo esclusivamente a norme che indicano con precisione le modalità e i mezzi necessari per evitare il verificarsi dell’evento).” (Cass., 34791/2019).
Dunque, le regole cautelari che indicano con precisione le modalità ed i mezzi necessari sono individuate nel Protocollo (in particolare, quello adottato ed attualizzato in azienda) e si sostituiscono a norme che attribuiscono compiti senza individuare le modalità di assolvimento degli stessi (art. 2087 cod. civ.).
La Relazione parlamentare evidenzia proprio il fatto che “l’articolo 29-bis, introdotto nel corso dell’esame presso la Camera dei deputati, definisce il contenuto dell’obbligo di tutela della integrità psico-fisica del lavoratore prevista dall’articolo 2087 del Codice civile a carico dei datori di lavoro pubblici e privati, con specifico riferimento al rischio di contagio da COVID-19”.
L’art. 29bis della legge n. 40/2020
L’ambito oggettivo di riferimento
La disposizione è evidentemente limitata alla finalità del contenimento del virus. Mancando un preciso riferimento temporale, l’efficacia della disposizione potrà eccedere anche la fine del periodo di emergenza dichiarato dal Governo, ma l’assolvimento degli obblighi presenti nei protocolli è riferito esclusivamente all’ambito delle azioni per il contenimento del COVID19.
La platea soggettiva
Va evidenziato che la norma estende la previsione al datore di lavoro pubblico, che finora non era tenuto ad osservare i protocolli. Questo potrebbe essere messo in relazione al fatto che l’art. 42 della legge n. 27/2020 estende il riconoscimento del COVID19 come infortunio sul lavoro al datore di lavoro pubblico.
Il riferimento all’art. 2087 cc.
Come noto, ai sensi dell’art. 2087 del Codice civile, “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
È altresì nota la giurisprudenza unanime secondo cui “ai sensi dell’art. 2087 c.c., l’imprenditore è tenuto a adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. A tale precetto di portata generale, si aggiungono una serie di norme particolari, finalizzate alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, dettate in riferimento alle specifiche esigenze tecniche dei singoli settori produttivi. In tal senso, l’art. 2087 c.c., ha funzione di adeguamento dell’ordinamento alla complessità della realtà socioeconomica, intervenendo, in via sussidiaria, anche laddove la specifica normativa di settore -inidonea a contemplare ogni fattore di rischio- presenti eventuali lacune. Conseguentemente, il datore di lavoro deve osservare, oltre a tutta la normativa di settore, anche le comuni regole di prudenza, diligenza e perizia, onde adottare tutte le misure imposte dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica. Costituisce ius receptum il principio secondo cui, alla stregua delle norme in tema di sicurezza sul lavoro, la parte datoriale è tenuta a predisporre le migliori -anche “atipiche”- misure tecnicamente possibili, di tipo igienico, sanitario e antinfortunistico”. (Cass. Pen., 10135/2020).
Anche l’Inail, nella sua circolare n.22/2020, evidenzia che “la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche”, con indiretto riferimento all’art. 2087 cc.
È piuttosto difficile rintracciare sentenze di legittimità che attestino il pieno adempimento dell’articolo 2087 cc: normalmente, infatti, a valle delle consuete dichiarazioni tralaticie in ordine alla natura non oggettiva della responsabilità civile, poi si giunge ad affermare l’inosservanza dei principi dell’art. 2087 cc. Al contrario, alcune recenti sentenze (Cass., ord., 3282/2020; ord., 20364/2019), pur partendo dalle stesse premesse, poi escludono la responsabilità del datore di lavoro. Per questo motivo, potrebbero costituire il parametro di lettura del modello comportamentale che può andare esente da rimproveri, utile, quindi, nella adozione, attuazione e mantenimento del protocollo.
La norma in commento afferma che “i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo”: si ritiene che al termine “applicazione” possa ricondursi la medesima logica, propria dei modelli di organizzazione e gestione, della “adozione ed efficace attuazione” (art. 30, Dlgs n. 81/2008).
Questo anche perché la stessa norma fa espresso riferimento alla adozione ed al mantenimento delle misure previste nel Protocollo, così valorizzando il ruolo del Comitato e sollecitando il datore di lavoro a rappresentare nel Protocollo anche le progressive modifiche e integrazioni che dovessero essere necessarie nel corso del tempo.
Anche il profilo sanzionatorio (DL 33/2020, art. 1, comma 15) presuppone che il mancato rispetto dei contenuti dei protocolli “non assicuri adeguati livelli di protezione”, guardando, anche in questo caso, non ad una adozione meramente formale del Protocollo ma alla efficacia della sua attuazione.
L’effetto decisivo della norma è, dunque, quello di riempire di contenuto l’art. 2087 cod. civ. con previsioni conoscibili ex ante da parte dei soggetti obbligati e non rimesse alla consueta interpretazione giurisprudenziale condotta ex post.
Una voce critica evidenzia che la situazione, anche in assenza della norma, avrebbe comunque imposto l’adozione delle misure innominate adeguate (idonee, sufficienti, etc.) alla novità della situazione emergenziale.
Ma è proprio questo che la norma intende evitare: il riferimento alle solite misure “innominate”, che avrebbero generato la consueta incertezza generata dalla interpretazione della portata indefinita dell’art. 2087 cod. civ.
L’introduzione della norma apre, infatti, una situazione totalmente differente: da un lato, si fa puntuale riferimento ai contenuti del protocollo (e non più all’art. 2087 cod. civ.) e, dall’altro, si esclude l’esistenza di obblighi ulteriori rispetto a quelli contenuti nel protocollo (che sarebbero stati individuati ex post in sede giurisprudenziale), ipoteticamente esistenti secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza o la tecnica.
A ciò si aggiunga l’incertezza della scienza, che rende impossibile avere la esatta cognizione di quale sia il comportamento cautelare realmente efficace ed il continuo modificarsi delle soluzioni proposte (in tema di distanze, di test, di mascherine, di organizzazione, etc.) rende impossibile individuare la misura realmente adeguata (quella richiesta dalla cd. massima sicurezza possibile).
Occorre ricordare, a questo proposito, la risposta del Ministero del lavoro all’interrogazione Gribaudo (5-03904): “per quanto riguarda le conseguenze per i datori di lavoro cui fanno riferimento gli odierni interroganti, si può ritenere che la diffusione ubiquitaria del virus Sars-CoV-2, la molteplicità delle modalità e delle occasioni di contagio e la circostanza che la normativa di sicurezza per contrastare la diffusione del contagio è oggetto di continuo aggiornamento da parte degli organismi tecnico-scientifici che supportano il Governo, rendono particolarmente problematica la configurabilità di una responsabilità civile o penale del datore di lavoro che operi nel rispetto delle regole”.
Oggi, dunque, vi è consapevolezza della carenza di approdi scientifici definitivi: non si riscontrano, dunque, quei caratteri di “certezza, controllabilità e affidabilità” della scienza e della tecnologia che possono sostenere un giudizio di responsabilità, salvo che esso non sia formulato “ex post”, con il senno di poi[4].
La norma, superando l’incertezza, affida l’individuazione dell’obbligo al parametro certo del Protocollo, che costituisce lo standard di comportamento, specificamente prescritto[5], ed esclude che possano entrare in gioco altre disposizioni.
Il rapporto con il D.lgs. n. 81/2008
La norma non richiama il D.lgs. n. 81/2008, nell’evidente presupposto che esso rimane pienamente in vigore e se ne dovranno continuare ad applicare le disposizioni. Il Protocollo, in effetti, non supera o modifica le norme ordinariamente vigenti ma individua le misure idonee per far fronte al virus, restando al di fuori del quadro normativo disegnato dal D.lgs. n. 81/2008.
Resta confermata – per quanto vi siano voci discordanti – l’esclusione dell’obbligo di valutazione dei rischi. Il rischio derivante dal COVID19 non rientra tra quelli che possono costituire oggetto di valutazione, perché non è riconducibile all’attività del datore di lavoro. Piuttosto, esso si concretizza in una situazione esterna che si può riverberare sui lavoratori all’interno dell’ambiente di lavoro per effetto di dinamiche esterne, non controllabili dal datore di lavoro. Si tratta, dunque, di un rischio non riconducibile all’attività e ai cicli di lavorazione e, quindi, non rientra nella concreta possibilità di valutarne con piena consapevolezza tutti gli aspetti gestionali, in termini di eliminazione alla fonte o riduzione dello stesso, mediante l’attuazione delle più opportune e ragionevoli misure di prevenzione tecniche organizzative e procedurali tecnicamente attuabili.
In linea con queste motivazioni, espresse dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Nota n. 89/2020) e dalla Regione Veneto (“Manuale per la ripresa delle attività produttive” approvato con DGR n. 601 del 12.05.2020), rileviamo che il DPCM 17 maggio 2020, all’allegato 17 (relativo alle indicazioni della Conferenza delle Regioni) dispone, con riferimento ai Protocolli, che “tali procedure/istruzioni operative possono coincidere con procedure/istruzioni operative già adottate, purché opportunamente integrate, così come possono costituire un addendum connesso al contesto emergenziale del documento di valutazione dei rischi redatto ai sensi del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”.
Dunque, si conferma ulteriormente l’esclusione di un obbligo di aggiornamento del DVR, ritenendo sufficiente che il Protocollo costituisca un addendum al DVR stesso.
Da questo punto di vista, sarà opportuno che il Protocollo rappresenti compiutamente il nuovo quadro organizzativo aziendale, aggiornato alle esigenze di sicurezza determinate dalla situazione di emergenza, quale supporto al personale ispettivo nella verifica della corretta ed efficace applicazione del Protocollo stesso.
La responsabilità civile e penale
Sia sul piano civile che penale, l’analisi delle responsabilità non potrà che partire dal rispetto dei due complessi normativi (D.lgs. 81/2008 e Protocollo). Tanto la logica della diligenza adempitiva propria del diritto civile quanto il rispetto delle regole cautelari proprio del diritto penale trovano maggiore certezza nel nuovo quadro normativo.
Sul piano civile, la prova liberatoria a carico del datore di lavoro per gli adempimenti “innominati” (quelli richiamati dall’art. 2087 cod. civ.) è “correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli ‘standards’ di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe”[6].
L’indeterminatezza viene oggi meno, in quanto il Protocollo sostituisce questi adempimenti innominati.
Sul piano penale, si può applicare la linea giurisprudenziale sopra richiamata secondo la quale “in tema di responsabilità per reato colposo di evento risulta indispensabile non solo individuare il soggetto al quale viene contestato di aver cagionato l’evento tipico; operazione che conduce a ricercare, sulla scorta del contesto normativo pertinente o della situazione di fatto, chi fosse nel caso concreto il gestore del rischio che si è concretizzato nell’evento. Ma è altresì necessario individuare anche la condotta doverosa che doveva essere concretamente posta in campo. Espressi tali concetti nei termini che la più recente giurisprudenza di legittimità mostra di adottare, può dirsi che oltre a cogliere la norma di dovere, donde deriva lo status di gestore del rischio, il giudice deve anche individuare la regola cautelare, di natura necessariamente modale, che specificando il concreto da farsi si integra con la prima e dà contenuto concreto, specifico ed attuale all’obbligo di sicurezza (cfr. Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015 – dep. 24/03/2016, P.G. in proc. e altri in proc. Barberi e altri, Rv. 267813, per la quale, in tema di reati colposi, la regola cautelare alla stregua della quale deve essere valutato il comportamento del garante, non può rinvenirsi in norme che attribuiscono compiti senza individuare le modalità di assolvimento degli stessi, dovendosi, invece, aver riguardo esclusivamente a norme che indicano con precisione le modalità e i mezzi necessari per evitare il verificarsi dell’evento).” (da ultimo, Cass., 34791/2019).
Anche da questo punto di vista, le prescrizioni del Protocollo (come specificate in relazione alle peculiarità aziendali) rappresentano le regole cautelari modali alle quali fare riferimento per il pieno adempimento degli obblighi penali (ai fini delle azioni di contrasto al COVID19).
La responsabilità sul piano assicurativo
Secondo la recente circolare Inail (n. 22/2020) “il riconoscimento dell’origine professionale del contagio, si fonda in conclusione, su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio. Non possono, perciò, confondersi i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail (basti pensare a un infortunio in “occasione di lavoro” che è indennizzato anche se avvenuto per caso fortuito o per colpa esclusiva del lavoratore), con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative. In questi, infatti, oltre alla già citata rigorosa prova del nesso di causalità, occorre anche quella dell’imputabilità quantomeno a titolo di colpa della condotta tenuta dal datore di lavoro”.
Se si fosse lasciato il rischio da COVID19 al suo naturale alveo della malattia comune (quale rischio generico), non sarebbe scattato il presupposto (il collegamento occasionale con il lavoro) che introduce la base logico-giuridica per fondare una responsabilità del datore di lavoro.
Infatti, secondo la giurisprudenza, “nella nozione di «occasione di lavoro» rientrano tutti i fatti, anche straordinari ed imprevedibili, inerenti all’ambiente, alle macchine, alle persone, al comportamento dello stesso lavoratore, purché attinenti alle condizioni di svolgimento della prestazione, ivi compresi gli spostamenti spaziali funzionali allo svolgimento della prestazione, con l’unico limite del rischio elettivo” (Cass., n. 7649/2019).
Invece, l’esposizione ad un rischio reso aggravato o specifico dal lavoro, quale oggi è considerato il virus da COVID19, ed il conseguente contagio, accertato dal medico legale Inail, introducono un collegamento che può porre la base per l’avvio di una azione di responsabilità civile o penale, nella quale l’analisi della colpevolezza si fonda sull’esistenza dell’ampio obbligo di prevenzione (sicuramente l’art. 2087 cod. civ.) e sulla omissione colpevole da parte del datore di lavoro.
Il contrasto alla diffusione della malattia comune non costituisce normalmente obbligo del datore di lavoro, ma quando questa assume natura professionale perché (ritenuta) connessa al lavoro (anche dal solo legame occasionale), rientra nella sfera della prevenzione in relazione al quale opera l’assicurazione.
La qualificazione come infortunio, l’ampiezza degli obblighi dell’art. 2087 cod. civ. e, ancor di più, l’improprio inserimento del COVID19 nell’alveo dei rischi biologici (che invece il legislatore ha configurato come riferito alle “attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici”, ossia ad un rischio insito nelle attività lavorative) generano il fondamento per l’estensione degli obblighi prevenzionali e delle conseguenti responsabilità omissive datoriali.
La norma, dunque, limita l’ampiezza dell’obbligo attraverso il riferimento al Protocollo: nonostante il riconoscimento dell’infortunio, quindi, l’osservanza del Protocollo esclude la responsabilità civile e penale.
L’adempimento del protocollo
Nel momento in cui la legge riferisce il rispetto dell’art. 2087 cod. civ. al quello del Protocollo, nasce l’evidente esigenza di assicurare che l’impresa recepisca scrupolosamente i contenuti del Protocollo secondo le proprie caratteristiche, ne adempia integralmente tutte le disposizioni ed assicuri l’aggiornato mantenimento delle misure nel tempo.
Questo anche perché, laddove si dovesse contestare l’aspetto formale dell’omesso aggiornamento del DVR, ben potrebbe questo essere sostituito, sul piano sostanziale, da un Protocollo completo ed efficacemente rappresentativo della situazione attualizzata delle misure anti COVID19 efficacemente adottate in azienda.
In particolare, si ritiene opportuno sottolineare alcuni passaggi:
- occorre elaborare il Protocollo con il supporto tecnico del RSPP e del Medico competente con la partecipazione delle rappresentanze sindacali e del RLS o, se non presenti, di una rappresentanza dei lavoratori (es. formalizzando le attività del comitato previsto dal Protocollo)
- il Protocollo, nella sua declinazione, deve rappresentare con chiarezza tutte le misure e le azioni adottate, anche documentandole con allegati (es. layout aziendale, procedure, documentazione informativa)
- è opportuno argomentare le scelte che sono alla base delle misure assunte con riferimento espresso a documenti tecnico-scientifici pubblici e aggiornati (es. per la sanificazione, le mascherine, il distanziamento)
- è necessario valorizzare gli aspetti della adozione e del mantenimento delle misure previste nel Protocollo perché l’art. 29bis fa espresso riferimento al fatto che l’adempimento dell’art. 2087 cod. civ. è rappresentato non solamente dalla adozione delle disposizioni del Protocollo ma anche dal loro mantenimento aggiornato nel tempo (valorizzando così anche il ruolo del Comitato previsto dall’art. 13 del Protocollo)
Potrà risultare utile ricorrere all’ausilio delle check list che alcune Istituzioni hanno elaborato per il controllo del pieno ed efficace adempimento dell’obbligo. In via esemplificativa, si rinvia a quelle della Regione Liguria o a quelle della ATS di Bergamo, da seguire nelle versioni più aggiornate.
Infine, molti punti del Protocollo fanno riferimento ad aspetti regolati da disposizioni e valutazioni delle Istituzioni pubbliche: si ritiene quindi utile indicare alcuni riferimenti che possono guidare nell’applicazione del Protocollo e nell’aggiornamento delle proprie valutazioni e scelte.
ISS – Rapporti |
Epicentro – Sorveglianza integrata COVID-19: i principali dati nazionali |
Ministero Salute – FAQ |
Ministero della salute – Normativa |
Ministero del lavoro – FAQ |
Governo – FAQ |
[1] Più in particolare, il testo del secondo comma dell’art. 42 è il seguente: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell’allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante «Modalità per l’applicazione delle tariffe 2019». La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.
[2] “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
[3] “La presente direttiva non esclude la facoltà degli Stati membri di prevedere l’esclusione o la diminuzione della responsabilità dei datori di lavoro per fatti dovuti a circostanze a loro estranee, eccezionali e imprevedibili, o a eventi eccezionali, le conseguenze dei quali sarebbero state comunque inevitabili, malgrado la diligenza osservata”.
[4] Nella sentenza ThyssenKrupp si diceva: “Se ci si chiede dove il giudice, consumatore e non produttore di leggi scientifiche e di prescrizioni cautelari, possa rinvenire la fonte precostituita alla stregua della quale gli sia poi possibile articolare il giudizio senza surrettizie valutazioni a posteriori, la risposta può essere una sola: la scienza e la tecnologia sono le uniche fonti certe, controllabili, affidabili. Traspare, così, quale interessante rilievo abbia il sapere extra giuridico sia come fonte delle cautele, al fine di conferire determinatezza alla fattispecie colposa, sia come guida per l’appezzamento demandato al giudice”
[5] Nella logica della sentenza n. 312/1996 della Corte costituzionale: “il modo per restringere, nel caso in esame, la discrezionalità dell’interprete è ritenere che, là dove parla di misure “concretamente attuabili”, il legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive. Ed è in questa direzione che dovrà, di volta in volta, essere indirizzato l’accertamento del giudice: ci si dovrà chiedere non tanto se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di conoscenze nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli standard di produzione industriale, o specificamente prescritta”.
[6] v. da ultimo Cass. 16.8.2019 n. 21428; 26.3.2019 n. 8911, con richiamo a Cass. 25 maggio 2006, n. 12445; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3033; Cass. 2 luglio 2014, n. 15082; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319; Cass. 20 febbraio 2018, n. 4084; Cass. 31 ottobre 2018, n. 27964.